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domenica 31 ottobre 2010
Quindici anni di emergenza campana
Per saperne di più sulla "emergenza campana" o "emergenza dei rifiuti" e vedere nero su bianco come le mani della Protezione Civile siano state assunte dal governo in violazione di qualsiasi possibile trasparenza, vi invito a leggere qui, questo articolo scritto a quattro mani col buon Arcureo (ispirato da un bel post di blogeko).
giovedì 28 ottobre 2010
Lea Garofalo sciolta nei sedili della nuova Metro
(ne abbiamo già parlato qui)
(di Giulio Cavalli, da qui)
Nella classifica dei morti ammazzati da ricordare e da raccontare Lea Garofalo scivola veloce verso le posizioni di coda. L’omicidio della testimone di giustizia (conclusosi con il cadavere sciolto nell’acido il 25 novembre scorso nel quartiere monzese di San Fruttuoso) ha tutti i crismi per accendere compiti minuti di silenzio e piazze a lutto ma ha un solo, insuperabile, neo: è avvenuto qui giù al Nord, dove i morti ammazzati sono un livello d’allarme che è sempre meglio scavalcare perché altrimenti si sporca il grembiulino di questa Lombardia scolaretta disciplinata dell’antimafia per educande.
Eppure sono stati in molti a pensare (per l’ennesima volta) che quel cadavere di donna sbriciolato dentro l’acido sia capitato per caso nelle civilissime e padanissime periferie brianzole per un’orda di sudisti che a Milano è venuta con un tocca e fuggi prima di ritornare nel peloso sud. Sembra che sia sfuggito a molti che l’omicidio di Lea Garofalo è fallito a Campobasso ed è stato possibile con un furgone acceso nel centro di Milano. Come se Milano rispondesse meglio alle condizioni ambientali (e indifferenti) per consumare in pieno centro sequestri di persona di testimoni di giustizia. Questa è la prima brutta la notizia.
La seconda è stata scritta da Roberto Galullo qualche giorno fa ed è uno schiaffo ancora peggiore: i carnefici di Lea Garofalo sono milanesi più dei milanesi, inseriti nel tessuto sociale, economico e imprenditoriale fino a mettere le mani (callose e sporche di sangue) negli appalti pubblici.
11 dicembre 2009, ore 18.39. Il cellulare di “Uorco” chiama un uomo straniero avvisando che si trovava “di sopra, dove esce il cemento”. “Uorco” è il nome in codice di Vito Cosco detto Sergio che telefona passeggiando sul cemento del cantiere della linea 5 della metropolitana milanese. Per la precisione cantiere di Viale Zara. Vito Cosco è il fratello di Carlo. Carlo Cosco: mandante, secondo gli inquirenti, dell’omicidio di Lea Garofalo. Il pentito Salvatore Sorrentino il 30 aprile di quest’anno aveva dichiarato “Sergio e Giuseppe Cosco organizzavano anche il lavoro degli scavi della quinta linea della metropolitana milanese tramite i loro mezzi di movimentazione terra, probabilmente in ambito di subappalto”. Gli stessi Cosco che gestiscono (a Milano) gli affitti abusivi dell case popolari in via Montello e in Corso Como. Tutto questo mentre i fratelli si permettono di non comparire in nessun registro delle imprese. Unica segnalazione: un’attività di commercio all’ingrosso di materiali di costruzione intestata a Carlo. Sede legale in via Montello 6. A Milano.
Un assassinio becero tutto lombardo, milanese di casa. E nemmeno un minuto di silenzio, un secondo di riflessione dalla città da bere. “E’ Cosa loro”. Dicono. Come Letizia Moratti ci insegna.
(di Giulio Cavalli, da qui)
Nella classifica dei morti ammazzati da ricordare e da raccontare Lea Garofalo scivola veloce verso le posizioni di coda. L’omicidio della testimone di giustizia (conclusosi con il cadavere sciolto nell’acido il 25 novembre scorso nel quartiere monzese di San Fruttuoso) ha tutti i crismi per accendere compiti minuti di silenzio e piazze a lutto ma ha un solo, insuperabile, neo: è avvenuto qui giù al Nord, dove i morti ammazzati sono un livello d’allarme che è sempre meglio scavalcare perché altrimenti si sporca il grembiulino di questa Lombardia scolaretta disciplinata dell’antimafia per educande.
Eppure sono stati in molti a pensare (per l’ennesima volta) che quel cadavere di donna sbriciolato dentro l’acido sia capitato per caso nelle civilissime e padanissime periferie brianzole per un’orda di sudisti che a Milano è venuta con un tocca e fuggi prima di ritornare nel peloso sud. Sembra che sia sfuggito a molti che l’omicidio di Lea Garofalo è fallito a Campobasso ed è stato possibile con un furgone acceso nel centro di Milano. Come se Milano rispondesse meglio alle condizioni ambientali (e indifferenti) per consumare in pieno centro sequestri di persona di testimoni di giustizia. Questa è la prima brutta la notizia.
La seconda è stata scritta da Roberto Galullo qualche giorno fa ed è uno schiaffo ancora peggiore: i carnefici di Lea Garofalo sono milanesi più dei milanesi, inseriti nel tessuto sociale, economico e imprenditoriale fino a mettere le mani (callose e sporche di sangue) negli appalti pubblici.
11 dicembre 2009, ore 18.39. Il cellulare di “Uorco” chiama un uomo straniero avvisando che si trovava “di sopra, dove esce il cemento”. “Uorco” è il nome in codice di Vito Cosco detto Sergio che telefona passeggiando sul cemento del cantiere della linea 5 della metropolitana milanese. Per la precisione cantiere di Viale Zara. Vito Cosco è il fratello di Carlo. Carlo Cosco: mandante, secondo gli inquirenti, dell’omicidio di Lea Garofalo. Il pentito Salvatore Sorrentino il 30 aprile di quest’anno aveva dichiarato “Sergio e Giuseppe Cosco organizzavano anche il lavoro degli scavi della quinta linea della metropolitana milanese tramite i loro mezzi di movimentazione terra, probabilmente in ambito di subappalto”. Gli stessi Cosco che gestiscono (a Milano) gli affitti abusivi dell case popolari in via Montello e in Corso Como. Tutto questo mentre i fratelli si permettono di non comparire in nessun registro delle imprese. Unica segnalazione: un’attività di commercio all’ingrosso di materiali di costruzione intestata a Carlo. Sede legale in via Montello 6. A Milano.
Un assassinio becero tutto lombardo, milanese di casa. E nemmeno un minuto di silenzio, un secondo di riflessione dalla città da bere. “E’ Cosa loro”. Dicono. Come Letizia Moratti ci insegna.
giovedì 21 ottobre 2010
"Diamo soldi ai drogati se si fanno sterilizzare"
(di Andrea Malaguti, da qui)
Quando ha scoperto che Barbara Harris sarebbe arrivata in Inghilterra e in Galles con la sua associazione di beneficenza Project Prevention - curiosa definizione per una banda di crociati arrabbiati - John di Liverpool, 38 anni, tossicodipendente da quando ne aveva undici, è stato il primo a comunicarle di essere pronto a farsi sterilizzare.
Le ha mandato una mail dettagliata spiegando che credeva ciecamente nella sua battaglia e che per il suo modo di vedere le cose non c’era nessun dubbio che quelli come lui, i drogati, ma anche gli alcolisti, avrebbero fatto meglio a chiudere definitivamente con l’idea di avere figli. Se Project Prevention, come aveva già fatto con 3500 americani e americane, era pronta a versargli i trecento dollari promessi, lui, John di Liverpool, sgangherato combattente dell’esistenza, non ci avrebbe pensato un attimo a ricorrere all’operazione. A fine settembre si è sottoposto alla vasectomia. In futuro non ci sarebbe stato un altro lui. Un istante dopo si è scatenato l’inferno.
Associazioni mediche, gruppi per i diritti umani, centri contro l’eugenetica, ex tossicodipendenti diventati padri e madri, filosofi e teologi hanno arroventato il dibattito: «La Gran Bretagna si deve ribellare. Siamo più civili di così». Selina Janvier, quarantottenne madre di cinque figli, ex cocainomane, ex prostituta e ora stimata volontaria nelle associazioni di recupero di quartiere, ha definito la pratica orribile e inumana. «I miei ragazzi, tutti grandi e affermati, non sarebbero al mondo se avessi incontrato la Harris. Non avrei avuto la forza per dirle no». La British Medical Association si è domandata se davvero si possa considerare «consapevole e informato» il consenso di chi è schiavo di una sostanza. «La maggior parte delle dipendenze si ha attorno ai vent’anni. Che cosa succede se a trenta uno sta bene e cambia idea? Tra l’altro è ovvio che quei soldi saranno reinvestiti in alcol e droghe». Di chi è la responsabilità se uno crepa con quella dose in più?
La Harris, una donnona della Carolina del Nord con certezze ferree, ha risposto quello che risponde sempre dal 1994, anno in cui ha fondato Project Prevention. «Voi non conoscete il dolore e i problemi che sono costretti a subire i bambini nati da madri e padri tossicodipendenti. O se lo conoscete allora potete fare come me: adottateli». Lei ne ha presi quattro molti anni fa. E ha scoperto che non dormivano, che erano ribelli, aggressivi, indomabili, infelici. «Mi si è spezzato il cuore. E’ ovvio che la catena deve essere interrotta». Li hai amati o li hai odiati quei ragazzini, Barbara? L’unica cosa che sa è che in Gran Bretagna ogni anno nascono mille bambini con patologie legate alle dipendenze dei genitori e che un anonimo signore di Londra l’ha finanziata con ventimila dollari per esportare il progetto da questa parte dell’Oceano e che la crociata è solo all’inizio.
Davanti alle telecamere della Bbc ieri sera John di Liverpool ha detto di essere choccato. Che non credeva che solo lui avrebbe detto sì. Pensava che ci sarebbe stata la fila per prendere quei trecento dollari. «Non riesco a badare a me stesso, figuriamoci se potrei mai badare a un bambino». Adesso i dubbi gli saltano addosso. Il suo umore sprofonda sotto il peso di una scelta che lo spaventa. Con le mani in tasca e l’inquietudine negli occhi impreca come uno scaricatore di porto, sibilando una bestemmia dietro l’altra contro le pietre rotte del selciato.
Quando ha scoperto che Barbara Harris sarebbe arrivata in Inghilterra e in Galles con la sua associazione di beneficenza Project Prevention - curiosa definizione per una banda di crociati arrabbiati - John di Liverpool, 38 anni, tossicodipendente da quando ne aveva undici, è stato il primo a comunicarle di essere pronto a farsi sterilizzare.
Le ha mandato una mail dettagliata spiegando che credeva ciecamente nella sua battaglia e che per il suo modo di vedere le cose non c’era nessun dubbio che quelli come lui, i drogati, ma anche gli alcolisti, avrebbero fatto meglio a chiudere definitivamente con l’idea di avere figli. Se Project Prevention, come aveva già fatto con 3500 americani e americane, era pronta a versargli i trecento dollari promessi, lui, John di Liverpool, sgangherato combattente dell’esistenza, non ci avrebbe pensato un attimo a ricorrere all’operazione. A fine settembre si è sottoposto alla vasectomia. In futuro non ci sarebbe stato un altro lui. Un istante dopo si è scatenato l’inferno.
Associazioni mediche, gruppi per i diritti umani, centri contro l’eugenetica, ex tossicodipendenti diventati padri e madri, filosofi e teologi hanno arroventato il dibattito: «La Gran Bretagna si deve ribellare. Siamo più civili di così». Selina Janvier, quarantottenne madre di cinque figli, ex cocainomane, ex prostituta e ora stimata volontaria nelle associazioni di recupero di quartiere, ha definito la pratica orribile e inumana. «I miei ragazzi, tutti grandi e affermati, non sarebbero al mondo se avessi incontrato la Harris. Non avrei avuto la forza per dirle no». La British Medical Association si è domandata se davvero si possa considerare «consapevole e informato» il consenso di chi è schiavo di una sostanza. «La maggior parte delle dipendenze si ha attorno ai vent’anni. Che cosa succede se a trenta uno sta bene e cambia idea? Tra l’altro è ovvio che quei soldi saranno reinvestiti in alcol e droghe». Di chi è la responsabilità se uno crepa con quella dose in più?
La Harris, una donnona della Carolina del Nord con certezze ferree, ha risposto quello che risponde sempre dal 1994, anno in cui ha fondato Project Prevention. «Voi non conoscete il dolore e i problemi che sono costretti a subire i bambini nati da madri e padri tossicodipendenti. O se lo conoscete allora potete fare come me: adottateli». Lei ne ha presi quattro molti anni fa. E ha scoperto che non dormivano, che erano ribelli, aggressivi, indomabili, infelici. «Mi si è spezzato il cuore. E’ ovvio che la catena deve essere interrotta». Li hai amati o li hai odiati quei ragazzini, Barbara? L’unica cosa che sa è che in Gran Bretagna ogni anno nascono mille bambini con patologie legate alle dipendenze dei genitori e che un anonimo signore di Londra l’ha finanziata con ventimila dollari per esportare il progetto da questa parte dell’Oceano e che la crociata è solo all’inizio.
Davanti alle telecamere della Bbc ieri sera John di Liverpool ha detto di essere choccato. Che non credeva che solo lui avrebbe detto sì. Pensava che ci sarebbe stata la fila per prendere quei trecento dollari. «Non riesco a badare a me stesso, figuriamoci se potrei mai badare a un bambino». Adesso i dubbi gli saltano addosso. Il suo umore sprofonda sotto il peso di una scelta che lo spaventa. Con le mani in tasca e l’inquietudine negli occhi impreca come uno scaricatore di porto, sibilando una bestemmia dietro l’altra contro le pietre rotte del selciato.
mercoledì 20 ottobre 2010
Sei arresti per la donna che denunciò la ’ndrangheta: uccisa e sciolta nell'acido
MILANO - Uccisa dopo essere stata «interrogata», messa su un furgone con 50 chili di acido, scaricata in un terreno a Monza San Fruttuoso e sciolta. Sono le terribili testimonianze dell'inchiesta che ha portato a sei ordinanze di custodia cautelare in carcere notificate nella notte per la scomparsa della collaboratrice di giustizia calabrese Lea Garofalo. Gli arresti sono stati eseguiti tra Lombardia, Calabria e Molise.
ARRESTI - Lea Garofalo, 35 anni, ex collaboratrice di giustizia e compagna di un affiliato alla 'ndrangheta di Petilia Policastro (Crotone), era sparita tra il 24 e il 25 novembre scorsi. Due mandati di arresto sono stati notificati in cella a Carlo Cosco - 40 anni, coinvolto in inchieste alla fine degli anni Novanta a Milano e cugino di Vito Cosco, autore della strage di Rozzano (Milano) che lasciò a terra quattro morti nell’agosto 2003 - ex convivente della donna dalla cui relazione è nata una figlia ora maggiorenne - e a Massimo Sabatino, 37 anni - spacciatore di Quarto Oggiaro. I due erano già stati arrestati a febbraio per un precedente tentativo di sequestro, avvenuto a Campobasso nel maggio dell'anno scorso, con lo scopo di uccidere la Garofalo per vendicarsi delle dichiarazioni da lei rese agli inquirenti a partire dal 2002 contro alcuni affiliati alle cosche della 'ndrangheta di Petilia Policastro (Crotone). Il 24 febbraio scorso erano state arrestate in Molise altre due persone per aver messo a disposizione alcuni capannoni nel Milanese dove la donna sarebbe stata portata dopo la scomparsa. Gli altri quattro destinatari del provvedimento sono i fratelli Giuseppe «Smith» Cosco e Vito «Sergio» Cosco, Carmine Venturino e Rosarcio Curcio.
COLLABORATRICE - La donna nel 2002 aveva iniziato a collaborare con l'Antimafia nelle indagini sulla faida tra i Garofalo e il clan rivale dei Mirabelli. Poi, nel 2006, aveva abbandonato il piano di protezione e lasciato la località segreta dove viveva. Nelle sue dichiarazioni, Lea Garofalo aveva parlato anche degli omicidi di mafia avvenuti alla fine degli anni Novanta a Milano. Come quello di Antonio Comberiati, nel 1995, nel quale era stato coinvolto anche il fratello.
AGGUATO - Secondo l'indagine, Carlo Cosco ha organizzato l'agguato teso a Lea Garofalo mentre questa si trovava a Milano con la figlia. Proprio con il pretesto di mantenere i rapporti con la ragazza, legatissima alla madre, Cosco ha attirato la sua ex a Milano nello stabile di viale Montello 6, un palazzo che ospita molti parenti dei caduti della guerra di 'ndrangheta. Lo scorso 24 novembre Lea Garofalo partecipò a una riunione di famiglia per decidere dove la figlia avrebbe proseguito gli studi dopo le superiori. Le sue tracce si sono perse nel pomeriggio quando alcune telecamere l'hanno inquadrata nella zona del palazzo e lungo i viali che costeggiano il cimitero Monumentale. La figlia e il padre erano alla stazione Centrale ad attenderla insieme al treno che avrebbe dovuto riaccompagnarla al Sud. Almeno quattro giorni prima del rapimento, Cosco aveva predisposto un piano contattando i complici, assicurandosi sia il furgone dove è stata caricata a forza, sia la pistola per ammazzarla «con un colpo», sia il magazzino o il deposito dove interrogarla, e infine l'appezzamento dove è stata sciolta nell'acido. La distruzione del cadavere ha avuto lo scopo di «simulare la scomparsa volontaria» della collaboratrice e assicurare l'impunità degli autori materiali dell'esecuzione. Sabatino e Venturino hanno materialmente sequestrato la vittima e l’hanno consegnata a Vito e Giuseppe Cosco, i quali l’hanno interrogata e poi uccisa con un colpo di pistola.
ARRESTI - Lea Garofalo, 35 anni, ex collaboratrice di giustizia e compagna di un affiliato alla 'ndrangheta di Petilia Policastro (Crotone), era sparita tra il 24 e il 25 novembre scorsi. Due mandati di arresto sono stati notificati in cella a Carlo Cosco - 40 anni, coinvolto in inchieste alla fine degli anni Novanta a Milano e cugino di Vito Cosco, autore della strage di Rozzano (Milano) che lasciò a terra quattro morti nell’agosto 2003 - ex convivente della donna dalla cui relazione è nata una figlia ora maggiorenne - e a Massimo Sabatino, 37 anni - spacciatore di Quarto Oggiaro. I due erano già stati arrestati a febbraio per un precedente tentativo di sequestro, avvenuto a Campobasso nel maggio dell'anno scorso, con lo scopo di uccidere la Garofalo per vendicarsi delle dichiarazioni da lei rese agli inquirenti a partire dal 2002 contro alcuni affiliati alle cosche della 'ndrangheta di Petilia Policastro (Crotone). Il 24 febbraio scorso erano state arrestate in Molise altre due persone per aver messo a disposizione alcuni capannoni nel Milanese dove la donna sarebbe stata portata dopo la scomparsa. Gli altri quattro destinatari del provvedimento sono i fratelli Giuseppe «Smith» Cosco e Vito «Sergio» Cosco, Carmine Venturino e Rosarcio Curcio.
COLLABORATRICE - La donna nel 2002 aveva iniziato a collaborare con l'Antimafia nelle indagini sulla faida tra i Garofalo e il clan rivale dei Mirabelli. Poi, nel 2006, aveva abbandonato il piano di protezione e lasciato la località segreta dove viveva. Nelle sue dichiarazioni, Lea Garofalo aveva parlato anche degli omicidi di mafia avvenuti alla fine degli anni Novanta a Milano. Come quello di Antonio Comberiati, nel 1995, nel quale era stato coinvolto anche il fratello.
AGGUATO - Secondo l'indagine, Carlo Cosco ha organizzato l'agguato teso a Lea Garofalo mentre questa si trovava a Milano con la figlia. Proprio con il pretesto di mantenere i rapporti con la ragazza, legatissima alla madre, Cosco ha attirato la sua ex a Milano nello stabile di viale Montello 6, un palazzo che ospita molti parenti dei caduti della guerra di 'ndrangheta. Lo scorso 24 novembre Lea Garofalo partecipò a una riunione di famiglia per decidere dove la figlia avrebbe proseguito gli studi dopo le superiori. Le sue tracce si sono perse nel pomeriggio quando alcune telecamere l'hanno inquadrata nella zona del palazzo e lungo i viali che costeggiano il cimitero Monumentale. La figlia e il padre erano alla stazione Centrale ad attenderla insieme al treno che avrebbe dovuto riaccompagnarla al Sud. Almeno quattro giorni prima del rapimento, Cosco aveva predisposto un piano contattando i complici, assicurandosi sia il furgone dove è stata caricata a forza, sia la pistola per ammazzarla «con un colpo», sia il magazzino o il deposito dove interrogarla, e infine l'appezzamento dove è stata sciolta nell'acido. La distruzione del cadavere ha avuto lo scopo di «simulare la scomparsa volontaria» della collaboratrice e assicurare l'impunità degli autori materiali dell'esecuzione. Sabatino e Venturino hanno materialmente sequestrato la vittima e l’hanno consegnata a Vito e Giuseppe Cosco, i quali l’hanno interrogata e poi uccisa con un colpo di pistola.
martedì 19 ottobre 2010
Maricica, Burtone va in carcere
(da qui)
Alessio Burtone è in carcere. Il gip ha firmato l'ordinanza che lo ha obbligato a lasciare gli arresti domiciliari per essere trasferito a Regina Coeli. Burtone, durante un litigio nella stazione della metropolitana "Anagnina", aveva sferrato un pugno a Maricica Hahaianu poi deceduta, venerdì scorso, presso il Policlinico Casilino, nella capitale. A provocare la morte della donna, come emerso dall'autopsia eseguita dal professor Paolo Arbarello, un profondo trauma cranico provocato dal colpo che la donna ha ricevuto sul volto e che l'ha fatta cadere pesantemente a terra.
I carabinieri, giunti presso l'abitazione del giovane per condurlo in carcere, sono stati accolti dai cori e dagli applausi degli amici di Burtone - circa duecento persone - che gridavano "Alessio libero, Alessio libero". Il ventenne è uscito con la testa e il volto coperti dal cappuccio di una felpa blu. La sorella è rientrata nell'androne del palazzo, in lacrime, abbracciata ad alcuni amici.
Le reazioni degli amici. Amarezza e rabbia tra gli amici del ragazzo, davanti allo stabile di via San Giovanni Bosco dal quale è stato prelevato dai carabinieri. "Roma non ha piú un sindaco - ripetono alcuni - da oggi Alemanno è il sindaco di Bucarest. Difende i romeni in qualsiasi occasione. Poi invece non parla di episodi come un ragazzo picchiato da due romeni e ricoverato in fin di vita al policlinico Casilino". C'è chi è molto preoccupato per le sorti di Alessio in carcere, "sicuramente verrà picchiato dagli altri detenuti soprattutto se romeni - dice Maui - è stato arrestato come un mafioso, sono venuti a prenderlo con otto automobili". Sul portone del palazzo di Alessio resta lo striscione con su scritto "Alessio libero", che gli amici hanno affisso nei giorni scorsi. "Lo abbiamo rifatto - spiega Andrea - perché la donna delle pulizie, romena, lo aveva staccato. Pensa che coincidenza".
L'attacco a Maricica. "La signora Maricica prendeva spesso l'autobus numero 511 e dava sempre fastidio ai passeggeri, creava sempre un pretesto per litigare, era un'attaccabrighe", dice un amico di Burtone parlando della vittima del pungo sferrato dal giovane. "Tempo fa si è fatta menare - aggiunge - per prendersi i soldi del risarcimento. Quindi non è Alessio il pregiudicato, non è vero".
Le frasi di Alessio. "Se tornassi indietro mi farei picchiare ma non alzerei più le mani in vita mia". Sono le parole ripetute in questi giorni da Burtone e riferite dal suo legale, Fabrizio Gallo. "E' affranto e dispiaciuto", ha raccontato l'avvocato prima della decisione del gip, facendo sapere che il giovane era "un po' più fiducioso" sulla sua situazione. Nel pomeriggio, dopo aver saputo della decisione del gip, Burtone ha anche aggiunto di essere "disperato per quella morte".
I funerali della donna. Quanto ai funerali della donna, il Comune di Roma si occuperà delle esequie e dell'allestimento di una camera ardente. Lo ha confermato ai microfoni di Radio Città Futura Ramona Badescu, consigliere del Comune per i rapporti con la comunità rumena. "E' stato il sindaco a proporlo tramite me al marito - ha spiegato l'attrice - c'è tanta gente che vuole salutarla, farle un omaggio, portarle dei fiori, e con Adrian (il marito della Hahaianu, ndr) abbiamo pensato di accontentarli, quando avremo il nulla osta dopo l'autopsia". Ramona Badescu invita a superare la questione della nazionalità della vittima: "Questo gesto, il fatto che il Comune si sia preso carico di tutte le spese del funerale, l'annuncio di Alemanno che si costituirà parte civile dimostrano il suo coraggio, la sua grandezza umana e fanno capire alla gente che il sindaco sta dalla parte di chi ha subìto un torto".
La polemica politica. Ma la polemica non si placa. "Una gazzarra indegna", la definisce Jean Leonard Touadì, deputato del Pd ed ex assessore alla Sicurezza del Comune di Roma, parlando del botta e risposta che ha visto contrapposti Alemanno, favorevole all'arresto di Burtone, e il sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Giro, contrario. Sempre ai microfoni di Radio Città Futura, Touadì ha spiegato che "i fatti sono gravissimi, stiamo parlando di una donna di 32 anni, madre di due figli, che svolgeva un lavoro delicato, e di un ragazzo maggiorenne incolpato di omicidio preterintenzionale aggravato dalla futilità dei motivi. Di fronte a questo, secondo me il magistrato deve applicare una pena esemplare".
"A vent'anni si ha una responsabilità penale totale - ha spiegato l'esponente del Pd alla Camera - e in questo caso abbiamo assistito a un ragazzo che fa pugilato assestando un colpo di questa durezza in faccia a una donna". E poi gli amici che, stando a quanto si legge su Facebook, "non hanno ancora preso la giusta misura della gravità di ciò che è successo, gli striscioni allo stadio e al quartiere don Bosco che inneggiano alla sua libertà, per questo ci vuole una punizione esemplare". Touadì si è chiesto, quindi "cosa sarebbe successo a parti inverse" e ricorda la vicenda dello stupro della Caffarella: "Allora dei giovani rumeni andarono in carcere sulla base di indizi non provati, poi si scoprì che non c'entravano niente".
Alessio Burtone è in carcere. Il gip ha firmato l'ordinanza che lo ha obbligato a lasciare gli arresti domiciliari per essere trasferito a Regina Coeli. Burtone, durante un litigio nella stazione della metropolitana "Anagnina", aveva sferrato un pugno a Maricica Hahaianu poi deceduta, venerdì scorso, presso il Policlinico Casilino, nella capitale. A provocare la morte della donna, come emerso dall'autopsia eseguita dal professor Paolo Arbarello, un profondo trauma cranico provocato dal colpo che la donna ha ricevuto sul volto e che l'ha fatta cadere pesantemente a terra.
I carabinieri, giunti presso l'abitazione del giovane per condurlo in carcere, sono stati accolti dai cori e dagli applausi degli amici di Burtone - circa duecento persone - che gridavano "Alessio libero, Alessio libero". Il ventenne è uscito con la testa e il volto coperti dal cappuccio di una felpa blu. La sorella è rientrata nell'androne del palazzo, in lacrime, abbracciata ad alcuni amici.
Le reazioni degli amici. Amarezza e rabbia tra gli amici del ragazzo, davanti allo stabile di via San Giovanni Bosco dal quale è stato prelevato dai carabinieri. "Roma non ha piú un sindaco - ripetono alcuni - da oggi Alemanno è il sindaco di Bucarest. Difende i romeni in qualsiasi occasione. Poi invece non parla di episodi come un ragazzo picchiato da due romeni e ricoverato in fin di vita al policlinico Casilino". C'è chi è molto preoccupato per le sorti di Alessio in carcere, "sicuramente verrà picchiato dagli altri detenuti soprattutto se romeni - dice Maui - è stato arrestato come un mafioso, sono venuti a prenderlo con otto automobili". Sul portone del palazzo di Alessio resta lo striscione con su scritto "Alessio libero", che gli amici hanno affisso nei giorni scorsi. "Lo abbiamo rifatto - spiega Andrea - perché la donna delle pulizie, romena, lo aveva staccato. Pensa che coincidenza".
L'attacco a Maricica. "La signora Maricica prendeva spesso l'autobus numero 511 e dava sempre fastidio ai passeggeri, creava sempre un pretesto per litigare, era un'attaccabrighe", dice un amico di Burtone parlando della vittima del pungo sferrato dal giovane. "Tempo fa si è fatta menare - aggiunge - per prendersi i soldi del risarcimento. Quindi non è Alessio il pregiudicato, non è vero".
Le frasi di Alessio. "Se tornassi indietro mi farei picchiare ma non alzerei più le mani in vita mia". Sono le parole ripetute in questi giorni da Burtone e riferite dal suo legale, Fabrizio Gallo. "E' affranto e dispiaciuto", ha raccontato l'avvocato prima della decisione del gip, facendo sapere che il giovane era "un po' più fiducioso" sulla sua situazione. Nel pomeriggio, dopo aver saputo della decisione del gip, Burtone ha anche aggiunto di essere "disperato per quella morte".
I funerali della donna. Quanto ai funerali della donna, il Comune di Roma si occuperà delle esequie e dell'allestimento di una camera ardente. Lo ha confermato ai microfoni di Radio Città Futura Ramona Badescu, consigliere del Comune per i rapporti con la comunità rumena. "E' stato il sindaco a proporlo tramite me al marito - ha spiegato l'attrice - c'è tanta gente che vuole salutarla, farle un omaggio, portarle dei fiori, e con Adrian (il marito della Hahaianu, ndr) abbiamo pensato di accontentarli, quando avremo il nulla osta dopo l'autopsia". Ramona Badescu invita a superare la questione della nazionalità della vittima: "Questo gesto, il fatto che il Comune si sia preso carico di tutte le spese del funerale, l'annuncio di Alemanno che si costituirà parte civile dimostrano il suo coraggio, la sua grandezza umana e fanno capire alla gente che il sindaco sta dalla parte di chi ha subìto un torto".
La polemica politica. Ma la polemica non si placa. "Una gazzarra indegna", la definisce Jean Leonard Touadì, deputato del Pd ed ex assessore alla Sicurezza del Comune di Roma, parlando del botta e risposta che ha visto contrapposti Alemanno, favorevole all'arresto di Burtone, e il sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Giro, contrario. Sempre ai microfoni di Radio Città Futura, Touadì ha spiegato che "i fatti sono gravissimi, stiamo parlando di una donna di 32 anni, madre di due figli, che svolgeva un lavoro delicato, e di un ragazzo maggiorenne incolpato di omicidio preterintenzionale aggravato dalla futilità dei motivi. Di fronte a questo, secondo me il magistrato deve applicare una pena esemplare".
"A vent'anni si ha una responsabilità penale totale - ha spiegato l'esponente del Pd alla Camera - e in questo caso abbiamo assistito a un ragazzo che fa pugilato assestando un colpo di questa durezza in faccia a una donna". E poi gli amici che, stando a quanto si legge su Facebook, "non hanno ancora preso la giusta misura della gravità di ciò che è successo, gli striscioni allo stadio e al quartiere don Bosco che inneggiano alla sua libertà, per questo ci vuole una punizione esemplare". Touadì si è chiesto, quindi "cosa sarebbe successo a parti inverse" e ricorda la vicenda dello stupro della Caffarella: "Allora dei giovani rumeni andarono in carcere sulla base di indizi non provati, poi si scoprì che non c'entravano niente".
lunedì 18 ottobre 2010
Di Pietro scarica De Luca. “Non deve venire meno alla questione morale”
(di Vincenzo Iurillo, da qui)
Pentito? “Non è esatto dire pentito. Italia dei Valori aveva deciso di sostenere Vincenzo De Luca nella corsa a governatore della Campania perché De Luca aveva stretto un patto con noi fondato sulla questione morale e sull’antiberlusconismo. Invece il sindaco di Salerno non è stato un uomo d’onore, ha accettato la prescrizione nel processo per la discarica di Ostaglio, si è omologato ai pensieri e alle politiche di Berlusconi che infatti vuole affidargli l’appalto del termovalorizzatore salernitano. Spero che De Luca non si ricandidi a primo cittadino, ma se lo farà non avrà il nostro appoggio”. Parola di Antonio Di Pietro.
Il leader Idv che qualche mese fa, per aver dato il via libera a un politico plurimputato per le varianti urbanistiche salernitane, affrontò un fuoco amico di critiche e contestazioni – tra le quali spiccarono i durissimi editoriali di Marco Travaglio e Paolo Flores d’Arcais – per aver violato uno dei principi fondativi del suo partito: il no alle candidature degli inquisiti. Ma Di Pietro difese con veemenza una scelta dettata dalla realpolitik: “Non potevo assumermi la responsabilità di consegnare la regione a Berlusconi”. Quella destra ha vinto lo stesso. E ora l’ex Pm di Mani Pulite si sfila da una vittoria a Salerno che invece pare abbastanza probabile. In nome di un principio al quale non vuole più derogare.
Di Pietro, è vero che Idv non si alleerà con De Luca alle amministrative di Salerno del 2011?
Io mi auguro che non si ricandidi. Sindaco avvisato mezzo salvato… Sì, comunque è vero.
Perché ci ha ripensato su De Luca?
Non è un ripensamento. È coerenza.
Spieghi.
Il Pd ci disse: o lo sostenete o vi prendete la colpa della rottura della coalizione e della sconfitta. E De Luca venne a febbraio al congresso Idv…
Che lo acclamò…
…a garantirci che si candidava in alternativa e come argine a Berlusconi e al berlusconismo. Io per senso di responsabilità ho accettato. Ma a condizione che non venisse meno sulla questione morale.
De Luca è imputato in due processi per reati gravi.
E lui ci aveva assicurato che in caso di condanna si sarebbe dimesso.
Aveva anche una condanna in primo grado per le irregolarità del sito di stoccaggio di Ostaglio.
Ci promise che avrebbe rinunciato alla prescrizione.
In appello, pochi mesi fa, De Luca ha incassato la prescrizione.
Ha rotto il patto di fiducia con noi. Non possiamo più ridargliela.
Si sente ingannato?
Ha ingannato Idv e la coalizione. Compreso il Pd che si era fatto garante per De Luca. Un uomo che tradisce un impegno preso davanti a 3000 persone che lo applaudono non è un uomo d’onore. Dovrebbe essere l’intero centrosinistra a non ricandidarlo.
Già nel 2006 De Luca scese in campo e vinse a dispetto del no del suo partito, i Ds.
Se rivincerà, massimo rispetto per il voto degli elettori. Ma se rivincerà, sarà senza di noi.
Lei dice che De Luca doveva essere un argine al berlusconismo. Lo sa che il premier vorrebbe affidargli l’appalto del termovalorizzatore di Salerno, a costo di far arrabbiare la Provincia a guida Pdl?
Alla luce delle recenti evoluzioni, dico che in realtà Berlusconi sta affidando il termovalorizzatore a un suo uomo.
De Luca uomo di Berlusconi?
Accettando una prescrizione disegnata dalle leggi del Cavaliere, ha aderito al modello berlusconiano.
Ma Idv a Salerno è in maggioranza con De Luca. Il vostro consigliere comunale, Dario Barbirotti, che è anche consigliere regionale, siede nel gruppo consiliare della lista del sindaco.
Barbirotti ci ha comunicato che uscirà da quel gruppo e fonderà il gruppo autonomo Idv.
Pentito? “Non è esatto dire pentito. Italia dei Valori aveva deciso di sostenere Vincenzo De Luca nella corsa a governatore della Campania perché De Luca aveva stretto un patto con noi fondato sulla questione morale e sull’antiberlusconismo. Invece il sindaco di Salerno non è stato un uomo d’onore, ha accettato la prescrizione nel processo per la discarica di Ostaglio, si è omologato ai pensieri e alle politiche di Berlusconi che infatti vuole affidargli l’appalto del termovalorizzatore salernitano. Spero che De Luca non si ricandidi a primo cittadino, ma se lo farà non avrà il nostro appoggio”. Parola di Antonio Di Pietro.
Il leader Idv che qualche mese fa, per aver dato il via libera a un politico plurimputato per le varianti urbanistiche salernitane, affrontò un fuoco amico di critiche e contestazioni – tra le quali spiccarono i durissimi editoriali di Marco Travaglio e Paolo Flores d’Arcais – per aver violato uno dei principi fondativi del suo partito: il no alle candidature degli inquisiti. Ma Di Pietro difese con veemenza una scelta dettata dalla realpolitik: “Non potevo assumermi la responsabilità di consegnare la regione a Berlusconi”. Quella destra ha vinto lo stesso. E ora l’ex Pm di Mani Pulite si sfila da una vittoria a Salerno che invece pare abbastanza probabile. In nome di un principio al quale non vuole più derogare.
Di Pietro, è vero che Idv non si alleerà con De Luca alle amministrative di Salerno del 2011?
Io mi auguro che non si ricandidi. Sindaco avvisato mezzo salvato… Sì, comunque è vero.
Perché ci ha ripensato su De Luca?
Non è un ripensamento. È coerenza.
Spieghi.
Il Pd ci disse: o lo sostenete o vi prendete la colpa della rottura della coalizione e della sconfitta. E De Luca venne a febbraio al congresso Idv…
Che lo acclamò…
…a garantirci che si candidava in alternativa e come argine a Berlusconi e al berlusconismo. Io per senso di responsabilità ho accettato. Ma a condizione che non venisse meno sulla questione morale.
De Luca è imputato in due processi per reati gravi.
E lui ci aveva assicurato che in caso di condanna si sarebbe dimesso.
Aveva anche una condanna in primo grado per le irregolarità del sito di stoccaggio di Ostaglio.
Ci promise che avrebbe rinunciato alla prescrizione.
In appello, pochi mesi fa, De Luca ha incassato la prescrizione.
Ha rotto il patto di fiducia con noi. Non possiamo più ridargliela.
Si sente ingannato?
Ha ingannato Idv e la coalizione. Compreso il Pd che si era fatto garante per De Luca. Un uomo che tradisce un impegno preso davanti a 3000 persone che lo applaudono non è un uomo d’onore. Dovrebbe essere l’intero centrosinistra a non ricandidarlo.
Già nel 2006 De Luca scese in campo e vinse a dispetto del no del suo partito, i Ds.
Se rivincerà, massimo rispetto per il voto degli elettori. Ma se rivincerà, sarà senza di noi.
Lei dice che De Luca doveva essere un argine al berlusconismo. Lo sa che il premier vorrebbe affidargli l’appalto del termovalorizzatore di Salerno, a costo di far arrabbiare la Provincia a guida Pdl?
Alla luce delle recenti evoluzioni, dico che in realtà Berlusconi sta affidando il termovalorizzatore a un suo uomo.
De Luca uomo di Berlusconi?
Accettando una prescrizione disegnata dalle leggi del Cavaliere, ha aderito al modello berlusconiano.
Ma Idv a Salerno è in maggioranza con De Luca. Il vostro consigliere comunale, Dario Barbirotti, che è anche consigliere regionale, siede nel gruppo consiliare della lista del sindaco.
Barbirotti ci ha comunicato che uscirà da quel gruppo e fonderà il gruppo autonomo Idv.
venerdì 15 ottobre 2010
Un documentario sulla tragedia del 2 agosto 1980 dimostra come, fra gran parte dei giovani bolognesi, regni l'ignoranza su quello che successe quel giorno e di chi fu la colpa. Per più della metà degli intervistati l'esplosione fu causata dalle Brigate Rosse.
Ecco il trailer in anteprima del documentario "Un solo errore - Bologna, 2 agosto 1980": regia di Matteo Pasi, produzione dell'Associazione Pereira e Arcoiris Tv, con la collaborazione dei Modena City Ramblers. Il film sarà presentato il 21 ottobre alla Festa della storia, evento organizzato dall'università di Bologna.
Ecco il trailer in anteprima del documentario "Un solo errore - Bologna, 2 agosto 1980": regia di Matteo Pasi, produzione dell'Associazione Pereira e Arcoiris Tv, con la collaborazione dei Modena City Ramblers. Il film sarà presentato il 21 ottobre alla Festa della storia, evento organizzato dall'università di Bologna.
giovedì 14 ottobre 2010
Arrestata e rilasciata in Francia la mamma del ragazzo morto in carcere
(di Mario Neri, da qui)
Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi, 36 anni di Viareggio (Lucca), morto il 25 agosto scorso nel carcere di Grasse in circostanze da chiarire, è stata arrestata stamani dalla polizia francese mentre manifestava davanti al penitenziario. "Carcere assassino, me lo avete ammazzato due volte. Voglio giustizia" aveva scritto su un lenzuolo. "Ero andata per protestare contro le bugie che hanno raccontato i francesi sulla morte di mio figlio e per chiedere di poter rivedere il corpo di Daniele, per poterlo salutare un'ultima volta prima di riportare la salma in Italia", racconta al telefono la signora Antignano, rilasciata nel pomeriggio grazie all'interessamento del console di Nizza, Agostino Alciator Chiesa.
La donna si era presentata nel parcheggio del penitenziario del borgo nell'entroterra di Cannes alle 12,30. Dice di essere stata ferita. Un poliziotto le avrebbe sferrato un calcio durante l'arresto fratturandole tre costole.
"Prima è venuto un gendarme a cacciarmi, dicendo di andarmene. Io ho risposto che non mi sarei mossa di lì perché ero in un luogo pubblico. E' tornato e ha cominciato a scattare fotografie e dopo poco è arrivata la polizia. Mi hanno fatta inginocchiare con un calcio sulle gambe, sono finita a terra e, mentre mi mettevano le manette torcendomi le braccia dietro la schiena, un poliziotto mi ha sferrato un colpo. Ha premuto intenzionalmente per farmi male".
Ora la donna, 66 anni, è in albergo a Grasse con la cugina. Respira a fatica. "Mi hanno tenuto in una stanza del posto di polizia per più di un'ora. Piangevo dal dolore e loro ridevano guardando lo striscione. E dicevano "Italiani merd". E' vergognoso, se mia cugina non avesse chiamato il console, forse sarei ancora lì dentro". Rilasciata intorno alle 14, Cira Antignano tornerà in Italia domani.
Dopo quasi due mesi d'attesa, potrà riportare a casa il corpo del figlio. La salma arriverà con un aereo dell'areonautica militare allo scalo di Pisa intorno alle 11 per poi essere trasferita all'ospedale Versilia di Lido di Camaiore (Lucca). Lì si svolgerà l'autopsia di parte che la procura di Lucca ha autorizzato nell'ambito dell'inchiesta aperta sulla morte del ragazzo.
Una vicenda su cui ancora oggi aleggiano molte ombre, quella di Daniele Franceschi. Il carpentiere navale viareggino era finito della prigione di Grasse alla fine di febbraio per aver esibito una carta di credito falsa in un casinò della Costa Azzurra. Durante la detenzione inviava lettere a casa raccontando di minacce e soprusi subiti dai secondini. Anche pochi giorni prima di morire aveva chiamato i familiari con un telefonino che si era procurato grazie ad alcuni compagni di cella. Fin dall'inizio, però, la procura di Grasse ha escluso la violenza fra le cause della morte. Secondo la prima autopsia, il decesso sarebbe avvenuto per infarto. Alla madre fecero vedere solo il volto: "Era gonfio, come se l'avessero picchiato", disse. Poi si sono aggiunti due testimoni, due detenuti, un compagno e un vicino di cella: uno conferma che Franceschi si era sentito male e per tre giorni non era stato soccorso; l'altro ha contattato con una lettera Francois Gonzales, l'avvocato francese che segue il caso per la famiglia. Ammesso come testimone dai giudici di Grasse, ha dichiarato di aver assistito alla morte di Daniele. "Stava male - ha detto - sono arrivati due secondini, ma non hanno saputo usare il defibrillatore. L'hanno lasciato morire".
In Italia il caso Franceschi è seguito dall'avvocato Aldo Lasagna. Il legale della famiglia proverà ad acquisire le testimonianze dei due detenuti anche nel fascicolo aperto dai magistrati di Lucca.
Cira Antignano, madre di Daniele Franceschi, 36 anni di Viareggio (Lucca), morto il 25 agosto scorso nel carcere di Grasse in circostanze da chiarire, è stata arrestata stamani dalla polizia francese mentre manifestava davanti al penitenziario. "Carcere assassino, me lo avete ammazzato due volte. Voglio giustizia" aveva scritto su un lenzuolo. "Ero andata per protestare contro le bugie che hanno raccontato i francesi sulla morte di mio figlio e per chiedere di poter rivedere il corpo di Daniele, per poterlo salutare un'ultima volta prima di riportare la salma in Italia", racconta al telefono la signora Antignano, rilasciata nel pomeriggio grazie all'interessamento del console di Nizza, Agostino Alciator Chiesa.
La donna si era presentata nel parcheggio del penitenziario del borgo nell'entroterra di Cannes alle 12,30. Dice di essere stata ferita. Un poliziotto le avrebbe sferrato un calcio durante l'arresto fratturandole tre costole.
"Prima è venuto un gendarme a cacciarmi, dicendo di andarmene. Io ho risposto che non mi sarei mossa di lì perché ero in un luogo pubblico. E' tornato e ha cominciato a scattare fotografie e dopo poco è arrivata la polizia. Mi hanno fatta inginocchiare con un calcio sulle gambe, sono finita a terra e, mentre mi mettevano le manette torcendomi le braccia dietro la schiena, un poliziotto mi ha sferrato un colpo. Ha premuto intenzionalmente per farmi male".
Ora la donna, 66 anni, è in albergo a Grasse con la cugina. Respira a fatica. "Mi hanno tenuto in una stanza del posto di polizia per più di un'ora. Piangevo dal dolore e loro ridevano guardando lo striscione. E dicevano "Italiani merd". E' vergognoso, se mia cugina non avesse chiamato il console, forse sarei ancora lì dentro". Rilasciata intorno alle 14, Cira Antignano tornerà in Italia domani.
Dopo quasi due mesi d'attesa, potrà riportare a casa il corpo del figlio. La salma arriverà con un aereo dell'areonautica militare allo scalo di Pisa intorno alle 11 per poi essere trasferita all'ospedale Versilia di Lido di Camaiore (Lucca). Lì si svolgerà l'autopsia di parte che la procura di Lucca ha autorizzato nell'ambito dell'inchiesta aperta sulla morte del ragazzo.
Una vicenda su cui ancora oggi aleggiano molte ombre, quella di Daniele Franceschi. Il carpentiere navale viareggino era finito della prigione di Grasse alla fine di febbraio per aver esibito una carta di credito falsa in un casinò della Costa Azzurra. Durante la detenzione inviava lettere a casa raccontando di minacce e soprusi subiti dai secondini. Anche pochi giorni prima di morire aveva chiamato i familiari con un telefonino che si era procurato grazie ad alcuni compagni di cella. Fin dall'inizio, però, la procura di Grasse ha escluso la violenza fra le cause della morte. Secondo la prima autopsia, il decesso sarebbe avvenuto per infarto. Alla madre fecero vedere solo il volto: "Era gonfio, come se l'avessero picchiato", disse. Poi si sono aggiunti due testimoni, due detenuti, un compagno e un vicino di cella: uno conferma che Franceschi si era sentito male e per tre giorni non era stato soccorso; l'altro ha contattato con una lettera Francois Gonzales, l'avvocato francese che segue il caso per la famiglia. Ammesso come testimone dai giudici di Grasse, ha dichiarato di aver assistito alla morte di Daniele. "Stava male - ha detto - sono arrivati due secondini, ma non hanno saputo usare il defibrillatore. L'hanno lasciato morire".
In Italia il caso Franceschi è seguito dall'avvocato Aldo Lasagna. Il legale della famiglia proverà ad acquisire le testimonianze dei due detenuti anche nel fascicolo aperto dai magistrati di Lucca.
mercoledì 13 ottobre 2010
Si dice giustizia si pensa vendetta
(di Natalino Balasso, da qui)
Tempo fa ho visto in piena notte su rai 3 un documentario sul sequestro di una ragazzina in Sudamerica. Due malviventi (si dice così) erano entrati in una casa di campagna in pieno giorno con l’intenzione di rubare, avevano trovato una ragazzina in casa che aveva cominciato a urlare e far accorrere gente dai dintorni. Vistisi persi, i due hanno tenuto in ostaggio la ragazzina chiedendo alla gente le cui fila si stavano ingrossando di lasciarli andar via. Ma la gente non solo è rimasta, ma ha anche comunicato ai due di aver chiamato la polizia. Fin qui il racconto, da questo punto arriva anche una tv locale e comincia il reality di un giorno di ordinaria follia. I due non sembrano avere le idee chiare, chiedono un’auto, vogliono andarsene. Qualcuno dice loro di lasciare andare la ragazzina. Loro eseguono e si asserragliano in casa, arrivano anche i genitori. I due raggiungono un luogo abbastanza protetto, una specie di legnaia dietro la casa. La gente non ha coraggio di avvicinarli (non sanno se sono armati e loro dicono di esserlo) e di lì a mezz’ora arriva la polizia. La gente urla inferocita all’indirizzo dei due criminali. I due, sollevati, si consegnano alla polizia. La gente è furibonda. Gli agenti di polizia hanno un’idea: lasciano lì i due criminali con le mani ammanettate in balìa della gente e dicono che torneranno fra mezz’ora.
A questo punto comincia l’orgia della vendetta. Uomini e donne coprono i due di calci e pugni. Un reporter riesce ad avvicinare un malvivente e gli chiede se ha paura (sic!) lui risponde che ha paura di morire. Qualcuno va a prendere una tanica di benzina e la versa sui due, cui viene appiccato il fuoco mentre continuano le bastonate. L’operatore inquadra le facce imbufalite di queste madri di famiglia, questi padri, questi ragazzini abbandonati allo sfogo degli istinti più violenti. Un’ultima inquadratura sui corpi bruciacchiati come a suggellare la giornata. Il pomeriggio è inoltrato, la polizia è tornata.
Una cosa è certa: non si ruba in casa della gente e non si sequestrano le ragazzine, ma forse è il caso di smetterla di chiamare giustizia ciò che vuole essere solo vendetta. Ogni volta che sentiamo al tg la notizia di un assassino, di uno stupratore, di un seviziatore, tutta gente odiosa, sia chiaro, c’è sempre nelle reazioni della gente qualcosa che mi ricorda le facce di quel documentario. E nei commenti ai quali tutti ci lasciamo andare, nei quali suggeriamo di impiccarli per le palle, di tagliargli le mani, di seviziarli in mille modi anche molto fantasiosi, c’è lo sfogo dei nostri istinti più bassi, della nostra ansia di violenza quasi gratuita, visto che il male non è stato fatto direttamente a noi.
Tutte le volte che viene intervistato chi ha subìto un grave torto e gli viene chiesto cosa chiede ai tribunali, costui risponde “giustizia” ma sulla faccia si legge “vendetta”. E’ umano e comprensibile, ma va chiamata col suo nome.
Tempo fa ho visto in piena notte su rai 3 un documentario sul sequestro di una ragazzina in Sudamerica. Due malviventi (si dice così) erano entrati in una casa di campagna in pieno giorno con l’intenzione di rubare, avevano trovato una ragazzina in casa che aveva cominciato a urlare e far accorrere gente dai dintorni. Vistisi persi, i due hanno tenuto in ostaggio la ragazzina chiedendo alla gente le cui fila si stavano ingrossando di lasciarli andar via. Ma la gente non solo è rimasta, ma ha anche comunicato ai due di aver chiamato la polizia. Fin qui il racconto, da questo punto arriva anche una tv locale e comincia il reality di un giorno di ordinaria follia. I due non sembrano avere le idee chiare, chiedono un’auto, vogliono andarsene. Qualcuno dice loro di lasciare andare la ragazzina. Loro eseguono e si asserragliano in casa, arrivano anche i genitori. I due raggiungono un luogo abbastanza protetto, una specie di legnaia dietro la casa. La gente non ha coraggio di avvicinarli (non sanno se sono armati e loro dicono di esserlo) e di lì a mezz’ora arriva la polizia. La gente urla inferocita all’indirizzo dei due criminali. I due, sollevati, si consegnano alla polizia. La gente è furibonda. Gli agenti di polizia hanno un’idea: lasciano lì i due criminali con le mani ammanettate in balìa della gente e dicono che torneranno fra mezz’ora.
A questo punto comincia l’orgia della vendetta. Uomini e donne coprono i due di calci e pugni. Un reporter riesce ad avvicinare un malvivente e gli chiede se ha paura (sic!) lui risponde che ha paura di morire. Qualcuno va a prendere una tanica di benzina e la versa sui due, cui viene appiccato il fuoco mentre continuano le bastonate. L’operatore inquadra le facce imbufalite di queste madri di famiglia, questi padri, questi ragazzini abbandonati allo sfogo degli istinti più violenti. Un’ultima inquadratura sui corpi bruciacchiati come a suggellare la giornata. Il pomeriggio è inoltrato, la polizia è tornata.
Una cosa è certa: non si ruba in casa della gente e non si sequestrano le ragazzine, ma forse è il caso di smetterla di chiamare giustizia ciò che vuole essere solo vendetta. Ogni volta che sentiamo al tg la notizia di un assassino, di uno stupratore, di un seviziatore, tutta gente odiosa, sia chiaro, c’è sempre nelle reazioni della gente qualcosa che mi ricorda le facce di quel documentario. E nei commenti ai quali tutti ci lasciamo andare, nei quali suggeriamo di impiccarli per le palle, di tagliargli le mani, di seviziarli in mille modi anche molto fantasiosi, c’è lo sfogo dei nostri istinti più bassi, della nostra ansia di violenza quasi gratuita, visto che il male non è stato fatto direttamente a noi.
Tutte le volte che viene intervistato chi ha subìto un grave torto e gli viene chiesto cosa chiede ai tribunali, costui risponde “giustizia” ma sulla faccia si legge “vendetta”. E’ umano e comprensibile, ma va chiamata col suo nome.
lunedì 11 ottobre 2010
Federico Aldovrandi
I poliziotti che hanno assassinato a Ferrara Federico Aldrovandi il 25 settembre 2005, sono stati condannati per eccesso colposo a tre anni e sei mesi. Non hanno scontato e non sconteranno un giorno di galera. La famiglia è stata risarcita con due milioni di Euro a patto che rinunci a costituirsi parte civile.
I poliziotti che assassinarono Alexandros Grigoropoulos, ad Atene, il 6 dicembre 2008, sono stati condannati per omicidio volontario alla pena dell’ergastolo.
I poliziotti che assassinarono Alexandros Grigoropoulos, ad Atene, il 6 dicembre 2008, sono stati condannati per omicidio volontario alla pena dell’ergastolo.
domenica 10 ottobre 2010
ossessionato
Oggi 10/10/10 alle 10.10 esce il nuovo singolo degli sXmatron. Guardare il video è molto importante ai fini della comprensione della canzone...
sabato 9 ottobre 2010
Abusi su bimba di 2 anni: arrestato il baby-sitter
(da qui)
E' un baby-sitter il ragazzo di 21 anni arrestato per aver compiuto atti di libidine su una bimba di 2 anni, sorellina della sua fidanzata che vive a Carcare, poco lontano da Cairo Montenotte in provincia di Savona.
I carabinieri sono intervenuti ieri sera, chiamati dalla madre che ha visto il ragazzo toccare la bambina mentre le cambiava il pannolone.
Poi la conferma dal giovane, iscritto a Pedagogia, che ha ammesso di avere una "certa propensione sessuale" per la bambina.
Il baby sitter frequentava la famiglia da mesi. Totale l'estraneità ai fatti della fidanzata che "ieri - ha proseguito il comandante dei carabinieri - era profondamente scossa, è scappata di casa e ci è voluto del tempo per convincerla a ritornare".
Il ragazzo è stato arrestato su disposizione del pm Danilo Ceccarelli e salvato dai genitori della piccola che volevano linciarlo.
E' un baby-sitter il ragazzo di 21 anni arrestato per aver compiuto atti di libidine su una bimba di 2 anni, sorellina della sua fidanzata che vive a Carcare, poco lontano da Cairo Montenotte in provincia di Savona.
I carabinieri sono intervenuti ieri sera, chiamati dalla madre che ha visto il ragazzo toccare la bambina mentre le cambiava il pannolone.
Poi la conferma dal giovane, iscritto a Pedagogia, che ha ammesso di avere una "certa propensione sessuale" per la bambina.
Il baby sitter frequentava la famiglia da mesi. Totale l'estraneità ai fatti della fidanzata che "ieri - ha proseguito il comandante dei carabinieri - era profondamente scossa, è scappata di casa e ci è voluto del tempo per convincerla a ritornare".
Il ragazzo è stato arrestato su disposizione del pm Danilo Ceccarelli e salvato dai genitori della piccola che volevano linciarlo.
la telefonata tra Porro e Arpisella
Tanto per far capire, a chi non l'ha capita, la differenza tra Repubblica e il Giornale di cui parlavo sotto.
Facevano per scherzare, eh. Bello scherzo, visto come l'hanno presa:
venerdì 8 ottobre 2010
la differenza fra Repubblica e il Giornale?
Per quello che mi riguarda, la campagna di Repubblica contro Berlusconi per l'affare Noemi Letizia è da censurare, e spiegherò anche i motivi in breve.
Il punto di partenza sta nelle motivazioni che stanno alla base dell'operazione. Ci si domanda perché un giornale come Repubblica abbia passato mesi a parlare della questione, quando ci sono questioni enormemente più rilevanti che riguardano il personaggio Berlusconi (e, se vogliamo, il suo entourage: che uno sia "favorevole" o "contrario", porre dieci domande a Schifani sulle sue frequentazioni di mafiosi, per scoprire se siano solo le impreviste conseguenze di una immacolata carriera politica oppure zone d'ombra che dovrebbero richiederne le dimissioni immediate, sarebbe molto più importante).
La risposta è ovvia: sapendo che il popolo italiano è perlopiù disinteressato alle questioni che riguardano le vicende giudiziarie di Berlusconi, ha provato a cavalcare la vicenda per usarla come un piede di porco sulla coscienza nazionale, provando a buttarla in scandalo e pruderie. Tutte le giustificazioni a posteriori di Repubblica e soci sulla necessità di blahblah sono buffonate.
Sulla vicenda Carfagna non mi pare buon giornalismo insinuare senza prove (o basarsi sulle dichiarazioni di un illividito Paolo Guzzanti, già noto paccaro per il suo discutibile coinvolgimento negli affari Mitrokhin e, se non erro, anche Telekom Serbia).
Vi è però, e non è piccola cosa, la differenza fra Giornale e Repubblica: Repubblica tutt'al più si può accusare di diffamazione (sebbene pare che le notizie pubblicate fossero a grandi linee corrette) o di brutto e stupido giornalismo scandalistico, mentre ricattare persone per non pubblicare materiale "scottante" vero è, appunto, un ricatto, e non giornalismo. E' UN CRIMINE. E chi lo compie non è "solo" un venduto/o e uno che fa un uso politico del mezzo d'informazione, ma un CRIMINALE.
Sulla Marcegaglia e la sua famiglia peraltro esistono paginate di dossier e notizie seminascoste che circolano su internet. Sarebbe interessante porsi una domanda generalizzata sul perché il giornalismo italiano tutto copra esponenti discutibilissimi del mondo imprenditoriale (forse un patto di reciproca tutela?). Non è solo la Marcegaglia a essere "protetta" o sotto possibile ricatto. Domandatevi perché tutte le imprese deprecabili di De Benedetti (dalla gestione dei contratti ai giornalisti di Repubblica/Espresso al suo ruolo di imprenditore nel campo dei termovalorizzatori, che sono inquinanti e cattivi solo quando li vuole il centrodestra a Napoli) non siano trattate da nessun giornale, e non solo dal suo gruppo editoriale...
Perché queste notizie vanno nascoste finché non fanno comodo come arma di ricatto a qualcuno? C'è davvero un "patto" nel cosiddetto "salotto buono", e ora che i "poteri forti" italiani hanno deciso che Berlusconi è una rottura di coglioni e deve andarsene, berlusconi risponde tirando merda a tutti.
E quindi c'è qualcosa di marcio che va ben al di là del dossieraggio del Giornale, che pure ne è una forma odiosa e detestabile anche per il profilo umano del tutto squalificato di chi lo compie.
Ovviamente io non giustifico il ricatto, l'uso dell'inchiesta giornalistica come arma di ricatto, certo che in un paese con una informazione leale e normale non ci sarebbero di questi problemi, perché alla Marcegaglia romperebbero i coglioni un giorno sì e l'altro pure per le sue magagne, così come a De Benedetti, a Berlusconi, ad Angelucci, a Caltagirone, e a tutti i Berlusconi, D'Alema e Caltagirone che infestano il nostro illuminato mondo democratico occidentale.
Solo che il giornalismo contemporaneo non funziona così, e in cambio lascia briciole a quegli indipendenti che ancora riescono a resistere alla tentazione dell'invettiva, del complottismo, della faziosità esasperata, enfatica ed estremista.
Il punto di partenza sta nelle motivazioni che stanno alla base dell'operazione. Ci si domanda perché un giornale come Repubblica abbia passato mesi a parlare della questione, quando ci sono questioni enormemente più rilevanti che riguardano il personaggio Berlusconi (e, se vogliamo, il suo entourage: che uno sia "favorevole" o "contrario", porre dieci domande a Schifani sulle sue frequentazioni di mafiosi, per scoprire se siano solo le impreviste conseguenze di una immacolata carriera politica oppure zone d'ombra che dovrebbero richiederne le dimissioni immediate, sarebbe molto più importante).
La risposta è ovvia: sapendo che il popolo italiano è perlopiù disinteressato alle questioni che riguardano le vicende giudiziarie di Berlusconi, ha provato a cavalcare la vicenda per usarla come un piede di porco sulla coscienza nazionale, provando a buttarla in scandalo e pruderie. Tutte le giustificazioni a posteriori di Repubblica e soci sulla necessità di blahblah sono buffonate.
Sulla vicenda Carfagna non mi pare buon giornalismo insinuare senza prove (o basarsi sulle dichiarazioni di un illividito Paolo Guzzanti, già noto paccaro per il suo discutibile coinvolgimento negli affari Mitrokhin e, se non erro, anche Telekom Serbia).
Vi è però, e non è piccola cosa, la differenza fra Giornale e Repubblica: Repubblica tutt'al più si può accusare di diffamazione (sebbene pare che le notizie pubblicate fossero a grandi linee corrette) o di brutto e stupido giornalismo scandalistico, mentre ricattare persone per non pubblicare materiale "scottante" vero è, appunto, un ricatto, e non giornalismo. E' UN CRIMINE. E chi lo compie non è "solo" un venduto/o e uno che fa un uso politico del mezzo d'informazione, ma un CRIMINALE.
Sulla Marcegaglia e la sua famiglia peraltro esistono paginate di dossier e notizie seminascoste che circolano su internet. Sarebbe interessante porsi una domanda generalizzata sul perché il giornalismo italiano tutto copra esponenti discutibilissimi del mondo imprenditoriale (forse un patto di reciproca tutela?). Non è solo la Marcegaglia a essere "protetta" o sotto possibile ricatto. Domandatevi perché tutte le imprese deprecabili di De Benedetti (dalla gestione dei contratti ai giornalisti di Repubblica/Espresso al suo ruolo di imprenditore nel campo dei termovalorizzatori, che sono inquinanti e cattivi solo quando li vuole il centrodestra a Napoli) non siano trattate da nessun giornale, e non solo dal suo gruppo editoriale...
Perché queste notizie vanno nascoste finché non fanno comodo come arma di ricatto a qualcuno? C'è davvero un "patto" nel cosiddetto "salotto buono", e ora che i "poteri forti" italiani hanno deciso che Berlusconi è una rottura di coglioni e deve andarsene, berlusconi risponde tirando merda a tutti.
E quindi c'è qualcosa di marcio che va ben al di là del dossieraggio del Giornale, che pure ne è una forma odiosa e detestabile anche per il profilo umano del tutto squalificato di chi lo compie.
Ovviamente io non giustifico il ricatto, l'uso dell'inchiesta giornalistica come arma di ricatto, certo che in un paese con una informazione leale e normale non ci sarebbero di questi problemi, perché alla Marcegaglia romperebbero i coglioni un giorno sì e l'altro pure per le sue magagne, così come a De Benedetti, a Berlusconi, ad Angelucci, a Caltagirone, e a tutti i Berlusconi, D'Alema e Caltagirone che infestano il nostro illuminato mondo democratico occidentale.
Solo che il giornalismo contemporaneo non funziona così, e in cambio lascia briciole a quegli indipendenti che ancora riescono a resistere alla tentazione dell'invettiva, del complottismo, della faziosità esasperata, enfatica ed estremista.
mercoledì 6 ottobre 2010
Molestie su sei bimbe di 10 anni, arrestato un istruttore di pallavolo
(da qui)
Per due anni avrebbe molestato almeno sei bimbe di dieci anni a cui insegnava la pallavolo all'interno di una scuola. Un istruttore italiano di 53 anni è stato arrestato a Milano per violenza sessuale pluriaggrava e continuata. Le violenze si sarebbero protratte per due anni scolastici, dal 2008 al 2010, e sarebbero state denunciate dalla madre di una giovane vittima. Proprio le testimonianze delle bambine hanno permesso agli inquirenti di raccogliere gli elementi univoci che hanno portato all'ordinanza di custodia cautelare in carcere.
La prima segnalazione arriva alla direzione scolastica nel maggio 2009. E in estate le indagini dei poliziotti hanno permesso di raccogliere gli elementi per far scattare le manette. Intanto le indagini proseguono per capire se ci sono altre vittime e se l'uomo abbia potuto mettere a segno altre violenze in altri istituti scolastici in cui ha prestato la sua opera come istruttore. Per il 53enne l'accusa è di violenza pluriaggravata perché ha abusato della sua autorità, per la minore età delle vittime e anche perché le violenze sono avvenute all'interno di una scuola.
Per due anni avrebbe molestato almeno sei bimbe di dieci anni a cui insegnava la pallavolo all'interno di una scuola. Un istruttore italiano di 53 anni è stato arrestato a Milano per violenza sessuale pluriaggrava e continuata. Le violenze si sarebbero protratte per due anni scolastici, dal 2008 al 2010, e sarebbero state denunciate dalla madre di una giovane vittima. Proprio le testimonianze delle bambine hanno permesso agli inquirenti di raccogliere gli elementi univoci che hanno portato all'ordinanza di custodia cautelare in carcere.
La prima segnalazione arriva alla direzione scolastica nel maggio 2009. E in estate le indagini dei poliziotti hanno permesso di raccogliere gli elementi per far scattare le manette. Intanto le indagini proseguono per capire se ci sono altre vittime e se l'uomo abbia potuto mettere a segno altre violenze in altri istituti scolastici in cui ha prestato la sua opera come istruttore. Per il 53enne l'accusa è di violenza pluriaggravata perché ha abusato della sua autorità, per la minore età delle vittime e anche perché le violenze sono avvenute all'interno di una scuola.
Modena, un pachistano uccide la moglie e riduce in fin di vita la figlia "ribelle"
(da qui)
MODENA - Uccide la moglie e riduce in fin di vita Nosheen, la figlia di vent'anni, che non ne voleva sapere di frequentare un ragazzo della sua nazionalità e magari di sposarlo, con un classico matrimonio combinato. Una violenta lite in una famiglia pakistana a Novi di Modena, uno scontro tra il desiderio di libertà di una ragazza, studentessa in un istituto tecnico, e la tradizione chiusa e intollerante verso ogni atteggiamento di "modernità". Quasi la fotocopia del caso di Hina, la ragazza del Pakistan che viveva a Sarezzo di Brescia, uccisa dal padre nell'agosto di quattro anni fa con l'appoggio di tutta la famiglia, compresa la madre, perché aveva un fidanzato italiano. Questa volta a morire non è stata la figlia, anche lei, come Hina Saleem, colpevole di voler scegliere il proprio destino e vivere all'occidentale, ma la madre, Begm Shnez, di 46 anni, che aveva osato prendere le sue difese, vista quindi come una traditrice da Ahmad Khan Butt, operaio di 53 anni, fermato dai carabinieri della compagnia di Carpi insieme al figlio maggiore, Humair, 19 anni. Il ragazzo ha partecipato all'eccidio familiare.
Per una parte dei pakistani è una questione di onore ("izzat") il modo di vestire e il comportamento della figlia in vista del matrimonio combinato. Ma Nosheen, ormai ventenne, si era ribellata a questa imposizione, a differenza di tante altre ragazze immigrate. Il litigio mortale è scoppiato nell'orto dell'edificio dove vive la famiglia, nel centro di Novi, al confine con il Mantovano, in una via tutta di palazzine ottocentesche ben tenute, abitate da pakistani e cinesi. Urla furibonde sono state sentite da parecchi vicini di casa, da un bar vicino si sono anche avvicinati, ma i pakistani hanno spiegato che era un fatto privato.
Nosheen, che abita con alcune amiche a Carpi dove studia, sembra sia stata chiamata dal padre nella casa, dove c'erano altri due figli minorenni. Lei di nuovo si è opposta alle richieste del genitore. Tempo fa la madre aveva già avvisato i carabinieri dei contrasti in casa e delle violenze del marito, ma non aveva presentato denuncia. Quella di ieri è sembrata una resa dei conti: il fratello ha ferito con una spranga la sorella, e la madre che ha cercato di difenderla è stata colpita a colpi di mattone. Portati in caserma, padre e figlio hanno fatto scena muta. "Conflitti che possono sfociare in aperta violenza sono destinati ad aumentare con l'aumento della scolarizzazione dei giovani pakistani che vivono in Italia e acquisiscono nuove abitudini - dice amaramente Ahmad Ejaz, direttore a Roma della rivista in lingua urdu "Azad" (Libertà) -. Non c'entra l'Islam, questi comportamenti dei capifamiglia affondano le radici nel sistema delle caste chiuse indiane, in un mondo rurale in cui far sposare la figlia al primo cugino significa preservare la proprietà delle terre".
MODENA - Uccide la moglie e riduce in fin di vita Nosheen, la figlia di vent'anni, che non ne voleva sapere di frequentare un ragazzo della sua nazionalità e magari di sposarlo, con un classico matrimonio combinato. Una violenta lite in una famiglia pakistana a Novi di Modena, uno scontro tra il desiderio di libertà di una ragazza, studentessa in un istituto tecnico, e la tradizione chiusa e intollerante verso ogni atteggiamento di "modernità". Quasi la fotocopia del caso di Hina, la ragazza del Pakistan che viveva a Sarezzo di Brescia, uccisa dal padre nell'agosto di quattro anni fa con l'appoggio di tutta la famiglia, compresa la madre, perché aveva un fidanzato italiano. Questa volta a morire non è stata la figlia, anche lei, come Hina Saleem, colpevole di voler scegliere il proprio destino e vivere all'occidentale, ma la madre, Begm Shnez, di 46 anni, che aveva osato prendere le sue difese, vista quindi come una traditrice da Ahmad Khan Butt, operaio di 53 anni, fermato dai carabinieri della compagnia di Carpi insieme al figlio maggiore, Humair, 19 anni. Il ragazzo ha partecipato all'eccidio familiare.
Per una parte dei pakistani è una questione di onore ("izzat") il modo di vestire e il comportamento della figlia in vista del matrimonio combinato. Ma Nosheen, ormai ventenne, si era ribellata a questa imposizione, a differenza di tante altre ragazze immigrate. Il litigio mortale è scoppiato nell'orto dell'edificio dove vive la famiglia, nel centro di Novi, al confine con il Mantovano, in una via tutta di palazzine ottocentesche ben tenute, abitate da pakistani e cinesi. Urla furibonde sono state sentite da parecchi vicini di casa, da un bar vicino si sono anche avvicinati, ma i pakistani hanno spiegato che era un fatto privato.
Nosheen, che abita con alcune amiche a Carpi dove studia, sembra sia stata chiamata dal padre nella casa, dove c'erano altri due figli minorenni. Lei di nuovo si è opposta alle richieste del genitore. Tempo fa la madre aveva già avvisato i carabinieri dei contrasti in casa e delle violenze del marito, ma non aveva presentato denuncia. Quella di ieri è sembrata una resa dei conti: il fratello ha ferito con una spranga la sorella, e la madre che ha cercato di difenderla è stata colpita a colpi di mattone. Portati in caserma, padre e figlio hanno fatto scena muta. "Conflitti che possono sfociare in aperta violenza sono destinati ad aumentare con l'aumento della scolarizzazione dei giovani pakistani che vivono in Italia e acquisiscono nuove abitudini - dice amaramente Ahmad Ejaz, direttore a Roma della rivista in lingua urdu "Azad" (Libertà) -. Non c'entra l'Islam, questi comportamenti dei capifamiglia affondano le radici nel sistema delle caste chiuse indiane, in un mondo rurale in cui far sposare la figlia al primo cugino significa preservare la proprietà delle terre".
martedì 5 ottobre 2010
Ravenna, accoltellato davanti a scuola studente in gravi condizioni
(da qui)
Poco prima del suono della campanella la lite e l'aggressione. Un ragazzino insegue l'amico con un coltello da cucina in mano, lo raggiunge e inizia a infierire con colpi al ventre e alle braccia. Poi il sangue, le ambulanze, la corsa in ospedale... E' stata una mattina di terrore fuori da un centro di formazione professionale in una frazione di Lugo, nel ravennate.
Sono le 7.45 quando due compagni di classe, un diciassettenne e un sedicenne, iniziano a litigare. Parole grosse che sfociano nel dramma. Il sedicenne, stando a una prima ricostruzione, si scaglia contro l'altro studente, lo insegue e lo raggiunge con alcuni colpi a ventre e braccia. In particolare due, i più gravi, sono penetrati fin nell'intestino. Il ferito, soccorso da ambulanza e automedica, è stato ricoverato, secondo quanto riferito da una nota del 118, in condizioni gravi all'ospedale di Lugo. Operato, non sarebbe in pericolo di vita anche se la prognosi rimane riservata. L'arma - un coltello da cucina con una lama da 15 centimetri - è già stata recuperata e sequestrata. Il sedicenne, che dopo l'aggressione avrebbe chiamato i soccorsi forse pentito per quello che aveva appena fatto, è in stato di fermo presso la caserma dei carabinieri: per lui si profila l'accusa di tentato omicidio.
Poco prima del suono della campanella la lite e l'aggressione. Un ragazzino insegue l'amico con un coltello da cucina in mano, lo raggiunge e inizia a infierire con colpi al ventre e alle braccia. Poi il sangue, le ambulanze, la corsa in ospedale... E' stata una mattina di terrore fuori da un centro di formazione professionale in una frazione di Lugo, nel ravennate.
Sono le 7.45 quando due compagni di classe, un diciassettenne e un sedicenne, iniziano a litigare. Parole grosse che sfociano nel dramma. Il sedicenne, stando a una prima ricostruzione, si scaglia contro l'altro studente, lo insegue e lo raggiunge con alcuni colpi a ventre e braccia. In particolare due, i più gravi, sono penetrati fin nell'intestino. Il ferito, soccorso da ambulanza e automedica, è stato ricoverato, secondo quanto riferito da una nota del 118, in condizioni gravi all'ospedale di Lugo. Operato, non sarebbe in pericolo di vita anche se la prognosi rimane riservata. L'arma - un coltello da cucina con una lama da 15 centimetri - è già stata recuperata e sequestrata. Il sedicenne, che dopo l'aggressione avrebbe chiamato i soccorsi forse pentito per quello che aveva appena fatto, è in stato di fermo presso la caserma dei carabinieri: per lui si profila l'accusa di tentato omicidio.
Si lancia dal treno precario senza lavoro: a Ostuni muore un uomo di 38 anni
(da qui. Grazie al Ratto per la segnalazione.)
BRINDISI - Un uomo di 38 anni, Cosimo Damiano Nardelli di Ostuni, laureato in economia e commercio, si è gettato dal treno sul quale viaggiava, nonostante il disperato tentativo di un passeggero di trattenerlo per la cintola dei pantaloni. Si trovava sul treno Espresso 925 Bolzano-Lecce nelle vicinanze della stazione di Ostuni. L’uomo è morto poco dopo il ricovero nell’ospedale a causa delle gravi ferite riportate.
IL MOTIVO - Negli ultimi giorni l’uomo era stato ospite di alcuni parenti a Milano, non si sa se per fare ulteriori tentativi di trovare occupazione. Alla base del tragico gesto ci potrebbe essere il problema della disoccupazione, dal momento che la vittima, secondo le prime notizie riferite dalla polizia, pare avesse perso da alcuni mesi il posto di lavoro. L'uomo, infatti, stava rientrando da Milano dove in passato aveva un'occupazione. Occupato sino allo scorso anno in una società di call center come tanti suoi coetanei era alla ricerca di un lavoro stabile inseguito a suon di domande e concorsi.
BRINDISI - Un uomo di 38 anni, Cosimo Damiano Nardelli di Ostuni, laureato in economia e commercio, si è gettato dal treno sul quale viaggiava, nonostante il disperato tentativo di un passeggero di trattenerlo per la cintola dei pantaloni. Si trovava sul treno Espresso 925 Bolzano-Lecce nelle vicinanze della stazione di Ostuni. L’uomo è morto poco dopo il ricovero nell’ospedale a causa delle gravi ferite riportate.
IL MOTIVO - Negli ultimi giorni l’uomo era stato ospite di alcuni parenti a Milano, non si sa se per fare ulteriori tentativi di trovare occupazione. Alla base del tragico gesto ci potrebbe essere il problema della disoccupazione, dal momento che la vittima, secondo le prime notizie riferite dalla polizia, pare avesse perso da alcuni mesi il posto di lavoro. L'uomo, infatti, stava rientrando da Milano dove in passato aveva un'occupazione. Occupato sino allo scorso anno in una società di call center come tanti suoi coetanei era alla ricerca di un lavoro stabile inseguito a suon di domande e concorsi.
domenica 3 ottobre 2010
Varese, aggressione razzista. Arrestato uno dei tre
(da qui)
Insulte, spinte, calci, pugni e poi colpi di manganello, un manganello nero con la scritta “Boia chi molla”. Un estremista di destra di 37 anni, R.D.G., già conosciuto alle forze dell’ordine per una rissa di giugno, è stato arrestato dalla polizia a Gallarate, nel Varesotto, per aver aggredito insieme ad altre due persone un gruppo di bengalesi. Il fatto è successo ieri sera, intorno alle 18 e 30, al circolo Juventus del quartiere Sciaré.
A denunciare l’episodio sono state proprio le cinque vittime che hanno fornito agli agenti le indicazioni per rintracciare uno dei responsabili. I bengalesi hanno raccontato di essere stati aggrediti senza motivo mentre giocavano a carte in un circolo ricreativo della cittadina. Sono stati colpiti con calci e pugni e apostrofati con insulti a sfondo razziale. Stando a quanto riportato da Varesenews, alcuni italiani presenti nel circolo hanno testimoniato che gli aggressori entrati nel locale hanno rivolto ai bengalesi frasi come “bastardi extracomunitari dovete andarvene dall’Italia” oppure “state rovinando l’Italia”.
Dopo aver rintracciato R.D.G., gli agenti hanno trovato nel sottosella del suo scooter il manganello con le scritte e un’effigie di Benito Mussolini. L’aggressore dovrà rispondere del reato di lesioni personali aggravate da motivi di discriminazione razziale, mentre i due complici, anche loro legati ad ambienti dell’estrema destra, sono riusciti a far perdere le tracce. Tre bengalesi sono stati medicati all’ospedale di Gallarate, e dimessi con una prognosi di tre giorni.
Insulte, spinte, calci, pugni e poi colpi di manganello, un manganello nero con la scritta “Boia chi molla”. Un estremista di destra di 37 anni, R.D.G., già conosciuto alle forze dell’ordine per una rissa di giugno, è stato arrestato dalla polizia a Gallarate, nel Varesotto, per aver aggredito insieme ad altre due persone un gruppo di bengalesi. Il fatto è successo ieri sera, intorno alle 18 e 30, al circolo Juventus del quartiere Sciaré.
A denunciare l’episodio sono state proprio le cinque vittime che hanno fornito agli agenti le indicazioni per rintracciare uno dei responsabili. I bengalesi hanno raccontato di essere stati aggrediti senza motivo mentre giocavano a carte in un circolo ricreativo della cittadina. Sono stati colpiti con calci e pugni e apostrofati con insulti a sfondo razziale. Stando a quanto riportato da Varesenews, alcuni italiani presenti nel circolo hanno testimoniato che gli aggressori entrati nel locale hanno rivolto ai bengalesi frasi come “bastardi extracomunitari dovete andarvene dall’Italia” oppure “state rovinando l’Italia”.
Dopo aver rintracciato R.D.G., gli agenti hanno trovato nel sottosella del suo scooter il manganello con le scritte e un’effigie di Benito Mussolini. L’aggressore dovrà rispondere del reato di lesioni personali aggravate da motivi di discriminazione razziale, mentre i due complici, anche loro legati ad ambienti dell’estrema destra, sono riusciti a far perdere le tracce. Tre bengalesi sono stati medicati all’ospedale di Gallarate, e dimessi con una prognosi di tre giorni.
venerdì 1 ottobre 2010
odio extra-vergine
(di Vittorio Zucconi, da qui)
Sulla prima pagina di “Libero”, sotto l’annuncio del misterioso e fortunatamente fallito attentato al direttore, campeggia l’ennesima caricatura di Romano Prodi con il fratello Giovanni, definito il “repubblichino”, in camicia nera, approfittando di un altro triste libro di qualcuno che fu un grande giornalista. Che cosa c’entri Romano Prodi, che all’epoca aveva 4 anni, non si capisce, se non come babau da agitare davanti ai lettori idrofobi che lo odiano. Ma soprattutto il professor Giovanni Prodi non è mai stato “repubblichino”, nel senso corretto di aderente alla Rsi, bensì militare arruolato a 18 anni nell’esercito di Salò con leva obbligatoria per tutti, sotto pena di fucilazione e con la sola alternativa della fuga alla macchia, rifiutata per non esporre il padre e i suoi otto fratelli alle rappresaglie dei veri”repubblichini”. In più Giovanni Prodi, luminare della analisi matematica, è morto da 8 mesi, dunque non potrà neppure offrire spiegazioni, ammesso che si debbano dare spiegazioni. A proposito di “pericoloso clima di odio”, vero Maurizio? L’odio pericoloso è sempre e soltanto quello che si subisce, mai quello che si dispensa.
Qui la vignetta sul Prodi in camicia nera, che introduce il prossimo libro di merda di quel rincoglionito di Pansa (PS: questo commento è mio, non di Zucconi):
Qui un'altra epocale vignetta sobria e non da clima di violenza di Libero, ai tempi della caduta del governo Prodi:
Sulla prima pagina di “Libero”, sotto l’annuncio del misterioso e fortunatamente fallito attentato al direttore, campeggia l’ennesima caricatura di Romano Prodi con il fratello Giovanni, definito il “repubblichino”, in camicia nera, approfittando di un altro triste libro di qualcuno che fu un grande giornalista. Che cosa c’entri Romano Prodi, che all’epoca aveva 4 anni, non si capisce, se non come babau da agitare davanti ai lettori idrofobi che lo odiano. Ma soprattutto il professor Giovanni Prodi non è mai stato “repubblichino”, nel senso corretto di aderente alla Rsi, bensì militare arruolato a 18 anni nell’esercito di Salò con leva obbligatoria per tutti, sotto pena di fucilazione e con la sola alternativa della fuga alla macchia, rifiutata per non esporre il padre e i suoi otto fratelli alle rappresaglie dei veri”repubblichini”. In più Giovanni Prodi, luminare della analisi matematica, è morto da 8 mesi, dunque non potrà neppure offrire spiegazioni, ammesso che si debbano dare spiegazioni. A proposito di “pericoloso clima di odio”, vero Maurizio? L’odio pericoloso è sempre e soltanto quello che si subisce, mai quello che si dispensa.
Qui la vignetta sul Prodi in camicia nera, che introduce il prossimo libro di merda di quel rincoglionito di Pansa (PS: questo commento è mio, non di Zucconi):
Qui un'altra epocale vignetta sobria e non da clima di violenza di Libero, ai tempi della caduta del governo Prodi:
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