Mentre il sistema continua a farci credere che la crisi sia cosa superabile e che i 540mila posti di lavoro persi in USA nel mese di aprile siano un dato foriero di belle speranze, noi, più realisticamente, preferiamo valutare l'attuale stato dell'arte in termini squisitamente tecnici. Al momento il recupero visto sulle piazze finanziarie appare solo un grosso rimbalzo tecnico e non ancora una solida impostazione rialzista.
[...]
Intanto, parallelamente a una visione ottimistica, e volutamente non tecnica, il sistema sta già cercando di programmare il futuro per garantirsi il rientro dei deficit pubblici che saranno aumentati in maniera esponenziale da questa crisi. Abbiamo visto che il nostro Paese avrà un rapporto debito /Pil elevatissimo e abbiamo analizzato (intervento dell'08 maggio) come in Italia si sia modificato, proprio per questo scopo, il rapporto di erogazione di fondi tra Stato ed Enti locali con il "federalismo fiscale".
Pensare che solo in questa maniera si possano raggiungere gli obiettivi di rientro è oltremodo ottimistico, fino all'ingenuità. Il mese scorso (intervento del 14 aprile) abbiamo posto l'accento sul fatto che le pensioni, altra voce importante di spesa per lo Stato, sono state in passato largamente riviste con tutta una serie di riforme. A questo proposito è utile mettere in evidenza che la scorsa settimana sia il libro bianco sul Welfare, sia uno studio parallelo del CER-CNEL, hanno evidenziato che "la piena applicazione a partire da gennaio dei nuovi coefficienti di trasformazione potrebbe non bastare a riequilibrare la spesa previdenziale". Nuove restrizioni, quindi. Già adesso, in attesa che le acque si calmino per poter nuovamente metter mano alla materia, "c'è una sola indicazione di policy: allungare le carriere lavorative".
Lavorare di più, quindi, per ottenere, in sostanza, comunque di meno visto che nei prossimi anni andrà a regime il sistema contributivo che prevede un calcolo della pensione molto più penalizzante rispetto al passato. Ma i problemi non finiscono qui. Dal cappello a cilindro del gestore pubblico, infatti, sta spuntando una nuova idea: il federalismo sanitario, non bastasse quello fiscale. Lo scopo è sempre lo stesso: risparmiare e raddrizzare i conti. Al centro del disegno, evidenziato dal libro bianco del Governo, ci sarà sempre il Servizio Sanitario Nazionale ma sarà dato spazio alla cosiddetta sanità integrativa "per ridisegnare il Ssn nel segno "dell'universalismo selettivo" (!!!) che costringe tutti a fare i conti con la scarsità delle risorse prevedendo il ricorso anche a misure dolorose come tariffazioni e compartecipazione ai costi dei servizi".
In poche parole, dovremo dire addio anche al modello sociale di sanità così come lo conosciamo, mettere mano al portafogli e pagare. Vengono utilizzati termini denigratori per il passato e positivi per il nuovo modello. Viene detto che questo passaggio avviene tra un precedente modello "assistenziale" (come se le tasse non si pagassero anche per la sanità), e un modello delle "responsabilità condivise", come se nel pagare due volte, prima come contribuenti e poi come fruitori di servizi, ci fosse una qualche condivisione con qualcuno.
Le Regioni che non manterranno l'equilibrio finanziario in materia dovranno provvedere al saldo tramite inevitabili aumenti della pressione fiscale. Le Regioni attualmente maggiormente in difficoltà sono, manco a dirlo, nel centro-sud: Lazio, Campania e Sicilia dove si colloca ben l'85% del deficit sanitario complessivo. Quindi buio pesto per il cittadino in termini di pensioni e sanità e seri problemi di tenuta finanziaria per le famiglie italiane appartenenti anche alla media borghesia che nel futuro dovranno sostenere sempre più il peso dell'allontanarsi dello Stato dalla politica sociale. Con quali redditi si dovrà sostenere questo peso, poi, è tutto da vedere. Già ora il livello degli stipendi italiani è tra i più bassi a livello europeo e ha subito una perdita di potere di acquisto progressivo negli anni. Recentemente, inoltre, si è deciso di modificare, con durata triennale, l'adeguamento economico dei contratti nazionali di lavoro, legandolo non più al tasso di inflazione programmata (comunque nazionale) ma a un indice previsionale calcolato sulla base dell'indice armonizzato europeo (Ipca), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati, calcolato da un soggetto terzo. Il problema è che l'Italia imbarca un'inflazione molto maggiore di quella europea alla quale si agganceranno i contratti. In questo modo il lavoratore italiano, temiamo, non solo non recupererà mai il divario di potere di acquisto rispetto agli altri Paesi europei ma rischierà seriamente di veder precipitare, col tempo, il proprio reddito a livelli di mera sussistenza.
Un quadro d'insieme davvero amaro e drammatico. Come abbiamo rilevato (intervento dell'8 maggio scorso), le regioni del sud del Paese saranno le più colpite. Confermiamo a questo proposito il sospetto che in futuro, anche proprio per questa necessità di accattivarsi il consenso nel meridione, potremo assistere all'ennesimo trasformismo del sistema che avvalendosi di personaggi apparentemente non compromessi con il passato, incanalerebbe su binari gestibili l'inevitabile protesta popolare. I personaggi che avranno questo compito, quindi, andranno reperiti dal sistema tra coloro che possono avvalersi di radici ben profonde e storicamente consolidate nelle regioni del sud d'Italia.
(The Advisor, 18 maggio 2009, via "la Voce del Ribelle")
-
1 commento:
Grazie, è esattamente la risposta che cercavo all'ultima sparata di Sacconi..
Tra poco sul mio blog pubblico un'inchiesta dell'Espresso sempre sull'argomento, ciao!!
Posta un commento